(Atene 445 ca - 365 ca a.C.) oratore greco. Figlio di Cefalo, il ricco fabbricante di scudi nella cui casa Platone ambienta il dialogo La Repubblica, dopo la morte del padre si stabilì nella colonia di Turi; nel 413, in seguito alla catastrofe ateniese in Sicilia, ne fu espulso e tornò ad Atene dove si dedicò all’insegnamento e all’esercizio della retorica. La feroce oligarchia dei trenta tiranni, che uccisero suo fratello Polemarco, lo costrinse all’esilio a Megara, da dove L. appoggiò la restaurazione democratica di Trasibulo. Quando poté ritornare ad Atene, L. si dedicò all’attività di logografo (cioè di oratore giudiziario su commissione) e divenne il più famoso avvocato del suo tempo, pur rimanendo (poiché il padre era siracusano) nella condizione di meteco, cioè di straniero autorizzato a risiedere stabilmente, ma non con tutti i diritti.A L. la tradizione attribuiva 325 discorsi, ma già Dionigi di Alicarnasso ne riconosceva autentici 233. A noi restano (a parte 172 titoli) 28 orazioni autentiche (di cui 3 incomplete), 6 spurie e 9 superstiti in brevi frammenti. La grande maggioranza delle orazioni che conosciamo, scritte su commissione, appartengono al genere giudiziario; ma vi sono rappresentati anche il genere deliberativo (Contro una proposta abrogativa della legge degli antenati) e quello epidittico (l’Olimpiaco). Solo Contro Eratostene, in cui L. chiedeva la condanna dell’uccisore di suo fratello, fu da lui pronunciata.Magistrale nelle orazioni di L. (basti ricordare quella Per l’invalido) è la capacità di adattare il testo del discorso al temperamento e alla condizione del cliente, che doveva pronunciarla di persona. L. ha conferito dignità letteraria alla lingua della conversazione quotidiana, puntando, anziché sugli artifici retorici, sulla chiarezza e precisione del linguaggio. Per la sua prosa attica tersa e semplice (il «genus tenue» di cui parlarono i latini), che rivela un sicuro talento narrativo, L. è stato considerato dagli antichi il maggiore degli oratori giudiziari.