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Primo dei “poeti maledetti” nella definizione Verlaine, François Villon è a detta di tutti i critici l’oggetto di una ‘leggenda’ alimentata dal tempo. I suoi dati biografici sono scarni e ci derivano da deduzioni basate sulle (poche) opere e (ancor meno) testimonianze alternative: sappiamo che si laureò in Lettere a Parigi, che invece di praticare una professione si diede ai peccati più vari – intendiamoci: peccati veri, non sciocchezzuole alla sant’Agostino – e che venne assolto da 4-5 condanne capitali solo perché benvoluto da Charles d’Orleans. Non sappiamo invece quando morì – si dice in età giovanissima. Non sappiamo se quel che racconta sia vero o frutto di una mitomania autocelebrativa. Non sappiamo nemmeno se sia esistito oppure se il suo nome sia lo pseudonimo di chissà chi. In casi come questi, ciò che più importa è distinguere quel che abbiamo solo bisogno di sapere. Anche volendo trattare la figura di Villon come un’invenzione, dovremmo comunque fare i conti con un’invenzione assolutamente affascinante. L’immagine di un uomo che, nell’epoca delle grandi certezze metafisiche, rifiutò faustianamente l’ascesi intellettuale per il piacere di una paganissima carne, e che nell’autunno della vita rimpiangerà di non avere una casa e un letto morbido su cui riposare, rende tutte le epoche partecipi della medesima, paradossale condizione. Villon potrebbe essere anche solo un bugiardo, un impostore, ma i poeti dicono la verità solo mentendo.
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