Un monologo autentico, doloroso, che preannuncia un triste finale. La fine per Dagerman è davvero solo triste, o è l’unica via d’uscita? Vivere, per lui, sembra diventare un atto di coraggio quotidiano, una resistenza lucida contro l’assenza di senso. Con un testo profondamente esistenzialista, Dagerman ci porta a riflettere su questioni radicali: la libertà come responsabilità opprimente, la solitudine come impossibilità di comunicazione autentica, il bisogno disperato e mai appagato di consolazione da una vita che non ha scopo. Il suo è un flusso di pensieri spietato, intimo, diretto, che non concede scorciatoie né illusioni. Al di là dell’analisi tecnica, sento il bisogno di custodire con gentilezza questo testo. In un periodo di particolare quiete personale — tanto più preziosa perché inattesa — leggere questo monologo è stato significativo. Mi ha fatto sentire come se lo avessi scritto io stessa e che sia stato scritto molto prima che io nascessi amplifica il senso di meraviglia: è la prova concreta che la scrittura può attraversare il tempo, toccare qualcosa di profondissimo e riconoscibile. Forse è proprio questa la consolazione che Dagerman credeva impossibile: sentirsi riconosciuti. Dopo aver letto molte recensioni, ciò che mi viene da consigliare è di non aspettarsi un libro che dia risposte, che sia motivante… È un testo che chiede di essere sentito, è uno specchio in cui possiamo riconoscere il nostro riflesso. È il nostro stesso dolore, scritto da qualcun altro, lasciato lì in attesa di essere riconosciuto e accolto...
Il nostro bisogno di consolazione
«Chi costruisce prigioni s'esprime meno bene di chi costruisce la libertà.»
L'inalienabile aspirazione umana alla felicità, alla libertà, al riscatto, al diritto di esistere senz'altra giustificazione che la propria inviolabilità e insieme la disperata consapevolezza che rimarranno irraggiungibili: è questa la toccante confessione di uno scrittore malato del male di vivere e che ha sempre sentito di «attirare il dolore come un amante». Benché Il nostro bisogno di consolazione non sia l'ultima opera di Dagerman, appare come un vero e proprio testamento spirituale, in cui si leggono fra le righe i motivi del suo silenzio finale e del suo suicidio. Schiavo del proprio nome e del proprio talento al punto di non avere «il coraggio di farne uso per il timore di averlo perso», ossessionato dal tempo e dalla morte, incapace di sottrarsi alle pressioni che si sente imporre dalla società e più ancora dalla propria intransigenza, resta tuttavia convinto che il valore di un uomo non può essere misurato dalle sue prestazioni e che nessuno può richiedergli tanto da intaccare la sua voglia di vivere. Vi sono sempre le parole da opporre a ogni tipo di sopraffazione, «perché chi costruisce prigioni s'esprime meno bene di chi costruisce la libertà». Ma se anche queste non bastano, rimane il silenzio, «perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente».
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Edizione:6
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Anno edizione:2015
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
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Giuls 29 luglio 2025Riconoscersi…
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Cantinero 12 luglio 2025Profonda riflessione
Libro da leggere e rileggere più e più volte; un linguaggio eterno sopravvissuto alla prova del tempo. I testi che anticipano e seguono il monologo che dà il titolo al libro sono anch'essi di rara bellezza, pur nella loro brevità.
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jannarelle 29 settembre 2024Una lettura di cui avrei potuto fare a meno
A dispetto del titolo, questo libriccino non offre consolazione alcuna a chi lo legge. Ne avevo sentito parlare dallo stesso editore di Iperborea ad una lezione di storia dell’editoria, ma, contrariamente a quanto Biancardi sosteneva, ritengo di doverlo sconsigliare vivamente se ci si trova in uno stato d’animo in cui un po’ di consolazione è tutto ciò che si desidera. Riga dopo riga l’autore confuta qualsiasi modo per trovarla, in una disperazione profonda e ostinata che pare sciogliersi solo verso la fine, quando la speranza di una liberazione dagli schemi sociali e culturali che ci imbrigliano senza via di scampo sembra ridare un po’ di luce e colore alle pagine. È un lampo, tuttavia; subito scompare. Dagerman infoltisce il gruppo di quelli che non hanno saputo reggere il peso del successo: visceralmente anarchico, non è riuscito a stare alle perverse regole del gioco della vita e ha deciso di uscirne, di tirarsi fuori. Una lettura di cui, forse, avrei potuto fare a meno.
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