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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 2021
Anno edizione: 2021
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Libro da leggere per meglio capire quanto successo nella campagna di Russia. Scritto in modo narrativo e scorrevole tuttavia pieno di sentimento. Da leggere tutto d'un fiato.
rispettale aspettative
“Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno” (p.3) La guerra toglie, prima ancora della vita, dignità all’essere umano e Mario Rigoni Stern, soldato ventenne, ce lo fa comprendere attraverso questo romanzo straziante e autobiografico. A partire dal 16 dicembre di 1942 l’Esercito Italiano, schierato sul medio corso del Don in Russia, subì un’offensiva durissima da parte dell’Armata Rossa e venne costretto ad una ritirata disastrosa. Il libro ne ripercorre le drammatiche vicende. In fondo come ebbe a spiegare lui stesso nel 1965, voleva “(…) narrare solo la condizione umana. Tutto qui”. Ma è un “tutto qui” pieno di significato, anche morale. Freddo, fame, sporcizia, fatica, paura e codardia si mescolano al coraggio, alla solidarietà ed alla speranza. “Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece” (p.36). I soldati imparano presto, infatti, come la natura può essere matrigna con uomini impreparati per latitudini così estreme (“le stelle mi straziano la carne, mi viene da piangere a da maledire”, p.62) e come alcuni di essi possono rivelarsi egoisti nell’ora più disperata. La neve fa sentire le mani “come se tanti aghi le perforassero” (p.49). Il vento che “(…) trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare (…)” e “ci toglieva il respiro” (pp.46 e 50). Rigoni Stern ci racconta anche la negazione dei bisogni primari, come quello della nutrizione e dell’igiene personale: nel caposaldo l’unico alimento è la polenta “dura e buona” (p.9) mentre nella sacca, durante la ritirata, si procede a perlustrare gli orti abbandonati in cerca di qualche verdura e si gioisce scovando un maiale o una gallina in un villaggio deserto; gli uomini, pieni di pidocchi sono affetti da scabbia (“C’era un odore forte lì dentro: odore di caffè, di maglie e mutande sporche che bollivano con i pidocchi, e di tante altre cose”, p.9). La fatica per “le scarpe che erano come legno” e per “la neve secca come sabbia” (p.59). La paura che non da tregua: “(…) la mia paura non sapeva dove andare né cosa fare. Mi guardavo attorno e non ero capace di ragionare” (p.37). La codardia di alcuni, che tentano di ferirsi da soli per essere allontanati dal fronte. Non manca, altresì, una critica fredda ed asciutta agli imboscati ed ai ranghi superiori colpevoli di pensare solo alla loro incolumità ed ai loro privilegi: come gli ufficiali nella loro “tana larga e comoda” (p.10) e che, disarmati, durante la ritirata, rubano le armi ai loro sottoposti (p.119). In tutto questo dolore fisico e psichico per alcuni l’unico conforto sono gli affetti descritti tramite gli oggetti minuti: “(…) sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati, paesi di montagna e bambini (…) il presepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il giorno di Natale” (p.44). Per altri, come Rigoni Stern, vi è anche la speranza di qualcosa oltre la guerra, oltre quel momento storico, un futuro tutto da scoprire: “C’era la guerra, proprio la guerra più vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano più vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose” (p.28). Altruismo e solidarietà, anche verso il nemico, sono la sua cifra e lo fanno apprezzare ai suoi commilitoni. Camminare, camminare e ancora camminare solo questo conta, questo “era il nostro destino” (p.126), anche con le scarpe bruciate che vanno in pezzi ed una piaga viva sotto il malleolo, purulenta e maleodorante: “<<Adesso e nell’ora della nostra morte>> e questo pensiero mi ritmava il passo” (p.120). “Mario di GioBatta, n°15454 di matricola, sergente maggiore del 6° reggimento alpini, battaglione Vestone, cinquantacinquesima compagnia, plotone mitraglieri. Una crosta di terra sul viso, la barba come fili di paglia, i baffi sporchi di muco, gli occhi gialli, i capelli incollati sulla testa dal passamontagna, un pidocchio che cammina sul collo. Mi sorrido” (pp.124-125) sono ancora vivo e tornerò in Italia.
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