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Anno edizione: 2020
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Una raccolta di poesie naturali, sempre legate a uno sguardo che può essere realistico, iperrealistico o visionario. Da queste immagini parte la scintilla per un gioco di analogie e di cortocircuiti mentali che spiazzano il lettore e, come sempre nei libri di Bajani, lo coinvolgono emotivamente.
Sono loro, a volte, che cambiano | canale, che muovono le parabole | sui tetti, i padiglioni auricolari | dei palazzi. È cosí che mandano | segnali dentro le cucine, nei salotti. | Pare siano soprattutto gli aquilotti: | dall'alto, con gli artigli e con le ali, | decidono dove guardano gli umani.
Il secondo libro di poesia di Bajani è attraversato da molti animali. Da quelli selvaggi dei documentari che ci ipnotizzano in tv, a gabbiani e storni osservati nei cieli cittadini, dal polpo di cui si è scoperto un cervello diffuso lungo il corpo fino alle mosche dipinte sugli orinatoi. Tra questi l'uomo, specie tra le specie, vorticante insieme alle altre sul pianeta; come loro cerca il contatto con la terra e come tutti non la riconosce piú dopo averla violata cosí tanto. Ha la presunzione che la materia cerebrale gli dia diritto di dominio, e finge di ignorare quanto sia la sua condanna: «L'inserimento del cervello dentro | il cranio è la vendetta piú spietata: | cercate invano, cercatela in eterno, | una ragione a questa insensatezza». Tra felini che sbadigliano contagiando gli umani dallo schermo, camosci che incuranti delle politiche dell'epoca scavalcano i confini, all'uomo non resta che esprimere la specie a modo proprio: «È la poesia, lo strazio vocale di ogni io. | Bello o brutto, è il verso che facciamo». Dunque una raccolta di poesie naturali, sempre legate a uno sguardo che può essere realistico, iperrealistico o visionario. Da queste immagini parte la scintilla per un gioco di analogie e di cortocircuiti mentali che spiazzano il lettore e, come sempre nei libri di Bajani, lo coinvolgono emotivamente.
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(versione più estesa dell’articolo pubblicato sull’«Immaginazione», 319, settembre – ottobre 2020) Nella grande arca della letteratura, esseri umani e animali sono stati spesso compagni di viaggio e hanno condiviso destini paralleli. Ne sono testimonianza le innumerevoli presenze che da Omero in poi costellano la nostra storia culturale e che si declinano in numerose e complesse varianti polarizzate tra antropocentrismo ed ecocentrismo. Simili all’uomo e nello stesso tempo diversi, gli animali sono ciò che più lo ricordano per l’appartenenza allo stesso regno dell’essere e per il rapporto con la natura, tanto da assumere ora connotati antropomorfi ora caratteristiche misteriose e divine ora funzioni totemiche. Insomma quella dell’animale è una figura proteiforme, che, una volta manifestatasi nella memoria letteraria, ha acquisito, in virtù della somiglianza nella differenza, la funzione privilegiata di alter ego dell’uomo. Giorgio Agamben nel saggio L’aperto. L’uomo e l’animale (2002) osserva come la condizione ontologica umana può essere equiparata a quella di «un animale che ha imparato ad annoiarsi, si è destato dal proprio stordimento e al proprio stordimento. Questo destarsi del vivente al proprio essere stordito, questo aprirsi angoscioso e deciso, a un non-aperto, è l’umano». Per vivere «umanamente», l’uomo non deve annichilire lo spazio animale che gli compete, deve solo sospendere la condizione di aperto/chiuso, impadronirsene senza annientarla, custodirla. La riflessione di Agamben viene in mente scorrendo le pagine del nuovo libro di poesia di Andrea Bajani, Dimora naturale, il secondo dopo Promemoria (2017). Si tratta di una silloge, anzi di un vero e proprio canzoniere composto da cinquanta ottave, che si discostano dalla grande tradizione dei cantari e dei poemi cavallereschi, attraverso la rinuncia alla rima: come è noto, nell’ottava toscana i primi sei endecasillabi sono a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata, ma diversa da quella dei versi precedenti. L’esito è rappresentato da liriche dalla forma piana, essenziale e discorsiva, avvolte da un velo di ironia. Narratore con sguardo poetico o, se si preferisce, poeta con lo sguardo del narratore – si pensi ai racconti brevi della Vita non è in ordine alfabetico (2014), che hanno, non a caso, nei Sillabari di Goffredo Parise, il loro modello dichiarato o alla scansione ritmica del racconto per ‘stanze’ del romanzo Un bene al mondo (2016) – Bajani dà vita in Dimora naturale a un bestiario formato da animali reali, raffigurati però spesso in gruppo, così da sottrarre loro materialità e corporeità: entità astratte, visioni fantasmatiche, capaci di modificare, dilatandola e/o restringendola, la percezione del vivere dell’uomo. Ridotto a «puro sguardo», scomparso nel paesaggio (35), il poeta passa in rassegna i felini dei documentari visti sullo schermo del computer (1), i cani che forse «prendono / i film per documentari sugli umani» (49), le «mosche dipinte / negli orinatoi» (3), gli uccelli che «da settimane fanno disegni sopra i tetti» (11), i lupi che «vanno dentro e fuori dalle / fiabe, vivono nel bianco della carta / e in quello della neve». E poi il falco, «di cui si rinvengono le ossa / nella fusoliera» (42), le «voraci papere del lago» (24), la zanzara che “ricompare” a fine anno (47) e i polpi, che «avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, distribuito dappertutto» (8). Fino ad arrivare all’uomo, il quale si ritiene superiore a ogni altra forma di vita, tanto da scambiare come un punto di forza quella che in realtà è una condanna: «l’inserimento del cervello dentro / il cranio» (30). L’uomo è una specie tra le altre. Trae conforto dall’entrare in farmacia, «negozio con dentro degli attrezzi / per riparare il dolore della specie» (37). Chi lo ha definito bipede, «era in malafede»: il suo «è soltanto equilibrismo», «una prodezza trattenuta», passata la quale, torna «a quattro zampe» (16) «Essere umani è solo una radura: / la paura riporta in un istante alla foresta dell’essere viventi» (28). Mentre è «proprio degli umani / credere al divino, mettersi a pregare, / pensarsi niente davanti all’universo», gli animali, privi di parola come sono, rendono materico il mistero della vita: per loro «finire nel presepe con Gesù bambino, / o dentro l’arca, è soltanto tempo perso» (41). A volte però uomo e animale condividono la stessa condizione di spaesamento, come il gabbiano che scambia «una palazzina anni cinquanta / per la propria dimora naturale», mentre è l’uomo a «ignorare / quanto dista il litorale» (13). Così non resta che affidarsi alla poesia, «strazio vocale di ogni io» (5), capace di scuotere e persino distruggere schemi codificati e imposti: possederla è cosa non facile, trattandosi – si legge nella cinquantesima ottava, significativamente contrassegnata dal segno dell’infinito, al contrario delle precedenti, tutte numerate da 1 a 49, nonché preceduta e isolata da una pagina bianca – di «un asteroide disperso, non monitorato», visibile ad occhio nudo ogni imprecisabile numero di anni. Un asteroide che permette di interfacciarsi con le gioie e i misteri della vita, coglierne i nessi e raggiungere magari quella «gentilezza, che è senza / spiegazioni, non ha ratio»: «è un accadimento di natura, è come / un biancore che si spezza» (31). Vito Santoro (versione più estesa dell’articolo pubblicato sull’«Immaginazione», 319, settembre – ottobre 2020)
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