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La vita da pentito di mafia Tommaso Buscetta e le confessioni che rilasciò in presenza di Giovanni Falcone diventano nelle mani di Marco Bellocchio, di ritorno in scena con una grande produzione internazionale, una marcia asettica e forzata di un uomo incapace di rinnegare quello nel quale ha sempre creduto ciecamente, al punto di definire altri i traditori degli ideali di ‘cosa nostra’. Inizialmente ricostruito come le prime scene del padrino, con la finta alleanza fra le fazioni rivali dei corleonesi e dei palermitani, di cui era membro lo stesso Buscetta, e successivamente rivisto alla luce degli eventi di cronaca, dei processi minuziosamente ricostruiti e con un linguaggio del corpo e labiale dei protagonisti che rasenta la perfezione e al contempo la quasi completa impossibilità di comprenderne parole e modi di dire. Pierfrancesco Favino riesce a trasformarsi nel suo alter ego cinematografico in una sorta di catarsi capace di farlo divenire il ‘boss dei due mondi’, ovvero un uomo semplice e che ci è presentato come ancorato a un’idea romantica e fuorviante della mafia e altresì legato a pochi saldi principi, fra cui la famiglia, che vide traditi da chi reputava suo amico e sodale. Il regista originario di Bobbio, che già due anni or sono aveva preannunciato il suo desiderio di raccontare la storia del primo pentito di mafia, senza l’intento di giudicare ma intravedendo assieme alle sue deposizioni l’Italia degli ultimi quarant’anni, riesce a colpire nel segno. Unica pecca l’aver lasciando forse troppo spazio ai fatti di cronaca e molto meno ad un personaggio del calibro di Buscetta, trattato come un semplice collaboratore di giustizia e meno come uomo. Il film riesce comunque a incuriosire sino in fondo sia per la bravura di Favino ma anche grazie a comprimari altrettanto all’altezza come il Giudice Falcone, impersonato da Fausto Alesi, e Totuccio Contorno, amico e pentito assieme a Buscetta e portato in scena da Luigi Lo Cascio.
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