Le prime frasi del romanzo:
Il pianeta Laurie Anderson
Laurie Anderson, al Regio, a Torino. Due ore di spettacolo. Alla fine tutti applaudivano come matti, grida urli fischi, e questo è curioso, e istruttivo. Lei è uscita a prendersi l'ovazione con professionale compostezza. Poi non è più uscita, anche se l'ovazione continuava, e anche questo deve averci a che fare con la professionale compostezza, o forse, più verosimilmente, con una cosa che ho sempre sospettato e che adesso anche inizio a capire, e cioè che a quelli lì, alla fine, alla lunga, non gliene frega quasi più niente, delle ovazioni e del pubblico adorante, dev'essere come una postilla inevitabile ma trascurabile a qualcosa che è tutta storia loro, la sfida tra sé e il proprio talento, una cosa privata. Comunque non è più uscita. E il pubblico (dal radical chic al morto vivente con spilla nel naso, tutta la vasta gamma delle intelligenze irregolari) lì ad applaudire il più nulla.
Dico che tutto quell'applaudire è curioso e istruttivo perché, volendo attenersi ai fatti, il concerto era una noia niente male, o per essere più precisi, era un concerto di Laurie Anderson orfano di Laurie Anderson. Lei c'era ma non c'era quello che lei significa per il pubblico: cose mai viste e mai sentite.
Il mondo è pieno di gente in gamba. Ma i creatori veri, quelli sono pochi. Lei lo è. Nel senso che ci sono oggi dei mondi sonori che prima di lei non c'erano. E anche un'idea di spettacolo che lei, insieme ad altri, ha inventato dal nulla e alla fine ha imposto, facendo invecchiare d'incanto tutti gli altri spettacoli. Una cosa mica da ridere. Fare, bene, una cosa che non esiste. Di fronte a una simile performance il pubblico rimane, giustamente, stregato. E io mi ricordo che di fronte a lei, la prima volta, chissà quanti anni fa, era tutto stupore e meraviglia, perché con quella sua faccia da Susanna Tamaro incrociata con Mick Jagger, piroettava sul palco, toccando oggetti strani o oggetti normali diventati strani, e usciva suono e musica, ma non normale, era un'altra cosa, era una cosa che prima non c'era. Poi c'era la sua voce che ne faceva di tutte, entrando in fili e macchine invisibili, uscendo irriconoscibile, sgranata, scolorata, oscurata, sembrava una fotografia negli acidi della camera oscura. Il tutto annegato in una galassia di immagini, schermi e luci, una parola che allora era nuova, multimediale, sapeva un po' di farmacia, ma poi era meraviglia, e ti faceva sentire scemo, tu che il futuro l'avevi immaginato, sì, ma non era tutta quella roba lì.
È impressionante come siamo veloci ad andare ad abitare i pianeti nuovi che certi avventurieri scoprono per noi. L'altra sera guardavo il palco e sul palco quella macchina che buttava immagini sui tre schermi deambulanti, ed era più o meno quella macchina brutta a vedersi con tre semisfere colorate sul davanti che qualche anno fa era magia e arte e adesso trovi nei bar quelli più cari, così ai mondiali ci puoi veder le partite, un po' sfocate ai bordi, una cocacola settemila, ma intanto vedi l'Italia di Sacchi grande come un manifesto. E il violino che impazza storpiato, come un Vivaldi esploso, non era più quella sega sui nervi che era anni fa, e perfino la voce (le voci) con cui Laurie Anderson racconta e canta non era (erano) più meraviglia, ma sorpresa addomesticata, consumata. Cristo come invecchia veloce tutta quella roba lì. Poi c'era anche il fatto che a lei è piaciuto mettere su uno spettacolo che per metà è parlato, è racconto, e la musica sembra alla fine un riempitivo di circostanza, un tributo doveroso alle attese del pubblico. Insomma una cosa un po' strana, che ti spiazza. E ti delude, se vogliamo dirla tutta.