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PROLOGO
Città del Vaticano,
lunedì 7 giugno 1982
Ronald Reagan capì che era stata la mano di Dio a portarlo lì. Non c’era altra spiegazione. Due anni prima, quando per la terza volta si era presentato alle primarie del Partito Repubblicano, si era impantanato in una campagna presidenziale contro dieci rivali, ma ne era uscito vincitore. E alla fine aveva battuto il candidato democratico, il presidente in carica Jimmy Carter, aggiudicandosi quarantaquattro Stati. Poi, quattordici mesi prima, un sicario gli aveva sparato, ma invano: Ronald Reagan era il primo presidente degli Stati Uniti a sopravvivere a un attentato. E adesso eccolo qui, al terzo piano del Palazzo Apostolico, nello studio privato del papa, a conferire con l’uomo che guidava quasi un miliardo di cattolici.
Rimase colpito dalla sobrietà di quella stanza: mobilia parca, e sole oscurato da pesanti tendoni. Eppure quelle erano le finestre dalle quali, ogni domenica, il papa pregava assieme a migliaia di pellegrini raccolti in piazza San Pietro. C’era un semplice tavolo con quattro sedie imbottite ai lati lunghi, due per parte, e un orologio d’oro, un crocifisso e un sottomano in pelle. Sotto, un tappeto orientale sul pavimento in marmo.
Giovanni Paolo II era in piedi, accanto al tavolo, in veste bianca. Negli ultimi mesi si erano segretamente scambiati una dozzina di missive, ognuna consegnata da una delegata speciale, per discutere dell’orrore delle
armi nucleari e dello spinoso problema dei Paesi dell’Est. Il dicembre precedente, l’Unione Sovietica aveva introdotto la legge marziale in Polonia, troncando qualunque istanza riformista. Per rappresaglia, gli Stati Uniti avevano imposto sanzioni contro i russi e il governo-fantoccio polacco, misure punitive da mantenere fino alla sospensione della legge marziale, alla liberazione di tutti i prigionieri politici e alla ripresa del dialogo. Per ingraziarsi ulteriormente il Vaticano, Ronald Reagan aveva ordinato alla sua delegata speciale d’inviare in Polonia una fiumana di spie per tenere il papa costantemente informato, anche se probabilmente Giovanni Paolo II era già al corrente di buona parte di quelle informazioni.
Però aveva capito una cosa: anche il pontefice, che occupava una delle posizioni più influenti al mondo, pur non dicendolo apertamente, era convinto che l’Unione Sovietica fosse destinata al crollo.
Dopo una stretta di mano e uno scambio di convenevoli, posarono per i fotografi, dopodiché si sedettero al tavolo, l’uno di fronte all’altro, sotto lo sguardo vigile di un ritratto della Madonna. Tutti gli altri presenti si ritirarono, le porte vennero chiuse e, per la prima volta nella storia, un papa e un presidente degli Stati Uniti rimasero a tu per tu. Era stato Reagan a proporlo, e Wojtyła non aveva obiettato. Quest’udienza privata era stata organizzata solamente dalla delegata speciale, senza interpellare lo staff ufficiale. Entrambi conoscevano la ragione di quest’incontro.
«Andrò dritto al punto, Santità. Voglio rescindere gli accordi di Jalta.»
Il pontefice annuì. «Anch’io. Sono illeciti, sono stati un errore.»
Su questo primo punto, la delegata speciale aveva interpretato correttamente l’opinione del papa. Alla Conferenza di Jalta, nel febbraio del 1945, Stalin, Roosevelt e Churchill si erano incontrati per l’ultima volta per decidere l’assetto dell’Europa postbellica e le strategie per governarla. Avevano tracciato linee di confine, alcune in modo arbitrario, altre come pegno di riconciliazione con i russi. Gli accordi prevedevano, fra le varie cose, che la Polonia restasse nella sfera d’influenza sovietica, in cambio di elezioni libere, che però non erano mai avvenute: da allora, avevano sempre governato i comunisti.
Piano dell'opera
Le avventure di Cotton Malone
L’ultima cospirazione
Le ceneri di Alessandria
L’ombra del leone
La tomba di ghiaccio
Il tesoro dell’imperatore
L’esercito fantasma
Il sigillo dei traditori
Le chiavi del potere
La congiura del silenzio
Il patto dei giusti
Il giorno del giuramento