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Boffi compie un'analisi geoestetica, ovvero un'analisi che ha l'obiettivo di descrivere una geografia dei sensi e dei punti di vista a partire dal fenomeno delle migrazioni. Inizialmente, riprende la figura di Abramo, l'ebreo migrante senza patria per eccellenza. Fuori da ogni tentativo di legittimazione del punto di vista sionista, Boffi sottolinea come nella Genesi non ci fosse l'indicazione di fondare uno Stato e sottomettere le popolazioni presenti nella "terra promessa". Con l'esegesi compiuta da Filone d'Alessandria si delinea la figura del migrante come colui che progredisce, trascende. Condizione che resta nell'uso del termine "migrante", participio presente che indica questo incompiuto procedere. Successivamente, Boffi riprende Schmitt per dimostrare che il territorio è intrinsecamente politico e luogo del potere dello Stato moderno, che secondo Schmitt vede la sua fine con il tentativo imperiale fallito del Reich hitleriano. È necessaria ad oggi, in questa condizione liquida ma che è ben lungi dalla "sconfinatezza" che si vorrebbe come conseguenza della crisi irrecuperabile dello Stato moderno, una riflessione sul migrante, a cui si deve una narrazione che vada al di là della vittimizzazione e della numerizzazione, ma che restituisca a questi individui una forma attraverso una contro narrazione. Ripensare e ripensarci, nell'insufficienza delle categorie che abbiamo a disposizione, significa mettere in discussione identità e alterità come due aspetti complementari, ricordandoci che ognuno è altro per qualcuno e che, al di là di logiche securitarie che vogliono la criminalizzazione dell'altro da noi, nuovi razzismi non più biologici ma culturali e la costruzione di un mondo-frontiera, dobbiamo fortemente convincerci che il confine è sempre artificiale e mai invalicabile.
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