(Milano 1785-1873) scrittore italiano.Gli esordi Sua madre Giulia Beccaria, figlia di Cesare, il famoso giurista e filosofo, aveva sposato controvoglia Pietro Manzoni, ricco possidente del lecchese, assai più anziano di lei; Alessandro nacque dopo due anni e mezzo di matrimonio, ed è fondato il sospetto che fosse il frutto di una relazione adulterina con il più giovane dei fratelli Verri, Giovanni. Il matrimonio comunque ebbe breve durata: nel 1792 avvenne la separazione e nel 1795 Giulia andò a convivere con il conte Carlo Imbonati, con il quale si stabilì a Parigi. Intanto Alessandro riceveva la sua prima educazione (ripudiata negli anni giovanili giacobini e sempre ricordata con avversione) nei collegi dei padri somaschi, a Merate, in Brianza, fino al 1796 e poi, fino al 1798, a Lugano, dove ebbe saltuarie lezioni da F. Soave, l’unico insegnante di cui conservasse in seguito grato ricordo; si trasferì quindi a Milano nel collegio dei Nobili, retto dai barnabiti e vi stette fino al 1801. Ebbe allora contatti con gli esuli politici che si erano rifugiati nella capitale lombarda (fra gli altri A. Mustoxidi, F. Lomonaco, V. Cuoco) e approfondì la conoscenza delle idee illuministe, accostandosi anche all’opera di G.B. Vico; conobbe inoltre V. Monti e U. Foscolo, e divenne amico di E. Visconti. Il radicalismo giacobino e aspramente anticlericale di questi anni trova espressione nel poemetto in 4 canti Del trionfo della libertà (1801), dove è celebrata, nella forma della visione di stampo montiano, la sconfitta del dispotismo e della superstizione per opera della libertà trionfante nella Repubblica Cisalpina. In quel torno di tempo componeva anche dei sonetti (l’autoritratto Capel bruno alta fronte occhio loquace e altri tre, uno dedicato a F. Lomonaco, l’altro alla musa, il terzo ispirato dalla contessina Luigia Visconti, sorella di Ermes, di cui era innamorato). Si tratta di componimenti che si iscrivono nell’ambito della cultura neoclassica, risuonanti di echi alfieriani e pariniani cui si congiunge l’influenza di Monti, non diversamente da quanto avviene nell’ode Qual su le Cinzie cime (1802-03), nell’idillio Adda (1803) e nei 4 Sermoni (Amore a Delia, Panegirico a Trimalcione, A G.B. Pagani, Contro i poetastri), composti fra il 1803 e il 1804. Questo primo periodo milanese si chiuse nel 1805, quando M. raggiunse la madre a Parigi; era appena morto C. Imbonati, la cui figura venne rievocata e celebrata dal giovane Alessandro (che pur non lo aveva mai conosciuto) negli sciolti In morte di Carlo Imbonati (1806). Perdurano nel carme gli influssi già segnalati per le opere precedenti ma, dentro lo schema consueto della visione settecentesca, sono stati anche notati i primi accenti di un risentito moralismo, secondo moduli che saranno tipici del M. maturo.Del resto, quelli fra il 1805 e il 1810, furono anni decisivi nell’evoluzione letteraria e umana dello scrittore. Da un lato egli veniva consumando la propria esperienza di poeta neoclassico (del 1809 è il poemetto Urania), dall’altro la sua cultura si apriva a una dimensione europea, grazie alla frequentazione degli «ideologi» repubblicani che si riunivano nel salotto di Sophie de Condorcet (P.-J.-G. Cabanis, A.-L.-C. Destutt de Tracy, C. Fauriel). Approfondiva anche la conoscenza della grande tradizione moralistica francese e, in conclusione, si predisponeva ad accogliere e rielaborare i fermenti e gli stimoli che andavano modificando e rinnovando il concetto stesso di letteratura. Sul piano più strettamente privato ebbe grande importanza per lui il recupero di un rapporto diretto con la madre, dalla quale era stato a lungo lontano negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, senza trovare nel rigido ambiente della casa paterna quel calore di affetti di cui il suo animo era bisognoso.La conversione e le opere maggiori Intanto nel 1807 era morto a Milano suo padre, e un anno dopo Alessandro sposava la ginevrina Enrichetta Blondel, di religione calvinista. Le sue convinzioni si erano nel frattempo evolute da un aperto agnosticismo a una forma di larvato deismo volteriano e quindi verso un interesse sempre più acuto per le tematiche religiose: si tratta di quel lungo e complesso processo a proposito del quale si è parlato di «conversione» di M., e che sfocerà nella adesione al cattolicesimo; al termine dell’intenso travaglio spirituale saranno mutate anche le idee sulla poesia.La data significativa è il 1810: fu allora che venne regolarizzato secondo il rito cattolico il matrimonio con la Blondel (già celebrato secondo il rito calvinista) e, dopo l’abiura della moglie, anche Alessandro giunse all’esplicita accettazione dei sacramenti della confessione e della comunione. Era la conclusione di un lungo ripensamento, nel quale avevano avuto parte rilevante la meditazione sulle teorie giansenistiche e l’influenza del sacerdote Eustachio Degola e poi del vescovo Luigi Tosi a Milano, ambedue fautori di un rigorismo che nella tradizione giansenistica aveva le sue radici. In quello stesso anno (1810) lo scrittore era tornato a vivere a Milano e la sua casa divenne il luogo di frequenti riunioni tra poeti e letterati (E. Visconti, T. Grossi, G. Berchet e anche, ma con minore assiduità, C. Porta), costituendo così un punto d’incontro e di convergenza per i due gruppi romantici milanesi: quello che faceva capo a Porta (la cosiddetta «cameretta») e l’altro costituito dai redattori del «Conciliatore» (M. non collaborò mai a questo periodico ma, sostanzialmente, ne condivise le posizioni).Quanto l’evoluzione dell’uomo M. fosse strettamente connessa a quella dello scrittore emerge dai suoi scritti posteriori al 1810. Dopo tre anni di silenzio, nel 1812, cominciò a comporre gli Inni sacri: avrebbero dovuto essere 12 ma ne portò a termine solamente 5: La Resurrezione (1812), Il nome di Maria (1812-13), Il Natale (1813), La Passione (1814-15) e infine, più in là negli anni, La Pentecoste (1817-22). Rifiutata la tradizione classicistica (cui si era fino allora conformato) e il registro alto del dettato poetico, M. cercava una lingua di più immediata comunicatività, che non si curasse di abbellimenti formali ma fosse in grado di esprimere con efficacia i contenuti concettuali che gli stavano a cuore (nella fattispecie quelli dell’apologetica cattolica). Una simile scelta coincideva con una più aperta adesione al romanticismo (espressa, fra l’altro, alcuni anni dopo nella lettera al marchese Cesare D’Azeglio Sul romanticismo, 1823): romanticismo inteso come rinnovamento sia dei moduli espressivi sia del repertorio tematico, e come promozione di una letteratura «popolare» nel senso indicato dai romantici lombardi, cioè indirizzata alle persone colte, seppur non letterate di professione, che apparivano la componente più vivace e progressista dell’intero tessuto sociale.Quella fra il 1812 e il 1827 è la stagione più feconda di M. poeta, storico e teorico: se infatti la conversione religiosa non gli diede la stabilità psichica (e nella sua vita persistettero ricorrenti stati di depressione e di angoscia, legati anche a lutti familiari, quali fra il 1833 e il 1839, la morte della moglie Enrichetta, poi delle figlie Giulia Claudia, andata sposa a Massimo d’Azeglio, Cristina, Sofia e Matilde, e infine della madre), la «conversione letteraria» lo portò a esiti molto alti o, comunque, significativi, che si collocano, cronologicamente, nel periodo di più intenso sviluppo del romanticismo italiano. Al 1821 risalgono due odi, Marzo 1821, ispirata ai moti patriottici di quell’anno (ma pubblicata nel 1848 insieme al frammento Il proclama di Rimini) e Il cinque maggio, dove il destino di Napoleone è rivissuto in una folgorante successione di episodi, dall’ascesa alla gloria e all’esilio, intrecciati e infine sublimati da una partecipe meditazione cristiana sulla storia. Nello stesso tempo si impegnava a fondo nel tentativo di costruire un teatro svincolato dai canoni del classicismo, basato su una documentata ricostruzione storica: nascevano così le tragedie Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822), nonché il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822), l’opera maggiore del M. storico, che raccoglie e coordina i materiali utilizzati in vista della composizione della seconda delle tragedie. A queste opere era sottesa una lucida consapevolezza teorica, espressa nella Lettre à M.C. J.-J.-V. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (1819, pubblicata nel 1823), in cui non soltanto sono respinte le regole classiciste delle unità ma, sulla scorta delle tragedie di Shakespeare e delle formulazioni teoriche di A.W. Schlegel, vengono enunciati alcuni principi essenziali di poetica, che saranno successivamente ripresi e sviluppati da M.: rispetto della verità storica come garanzia della validità morale ed estetica dell’opera; unità d’azione intesa come capacità dello scrittore di scoprire i nessi obiettivi degli eventi e di rintracciarne il senso.Nel 1821, inoltre, aveva avuto inizio la lunga e travagliata stesura del grande romanzo, la cui prima redazione, intitolata Fermo e Lucia, fu compiuta nel 1823. Nella scelta dell’argomento M. obbedì al gusto allora imperante (sull’onda del successo dell’opera di W. Scott) per il romanzo storico, e ancor più all’istanza di non prevaricare con la fantasia sul «vero» storico, ma d’integrare invenzione e storia per meglio illuminare fatti e sentimenti reali (posizione mutata più tardi, allorché nello scritto Del romanzo e in genere de’ componimenti misti di storia e invenzione, 1845, egli arrivò a condannare l’invenzione in letteratura e, quindi, tutto il genere romanzesco). I promessi sposi furono stampati una prima volta nel 1827, dopo la ristrutturazione operata sul Fermo e Lucia negli anni 1824-26; una seconda volta, a dispense, fra il 1840 ed il 1842 (con in appendice la Storia della colonna infame, ricostruzione delle vicende della peste di Milano, con un’ottica attenta soprattutto ai risvolti morali dell’evento).Mentre la prima edizione apporta modifiche sostanziali all’intreccio e ai fatti del Fermo e Lucia, la seconda è il risultato di una profonda revisione linguistica, cui M. giunse dopo un soggiorno fiorentino, voluto proprio per «risciacquare i panni in Arno», ossia per riscrivere il romanzo secondo la parlata toscana. A Firenze M. si recò nel 1827 assieme alla famiglia. Già celebre, s’incontrò e discusse più volte con il gruppo dei liberali toscani che faceva capo a G.P. Vieusseux e alla sua rivista «L’Antologia»; ebbe modo di conoscere anche Leopardi e Niccolini, e fu accolto nell’Accademia della Crusca quale membro corrispondente. Ma, come si è detto, il soggiorno fiorentino rappresenta un momento importante specialmente per la storia della redazione dei Promessi sposi e per l’approfondimento dei problemi relativi alla questione della lingua. Il pensiero linguistico manzoniano venne esposto in scritti posteriori, come la lettera a G. Carena Sulla lingua italiana (1845), la relazione al ministro della pubblica istruzione Dell’unità della lingua italiana e dei mezzi di diffonderla (1868), con relativa Appendice (1869), la Lettera intorno al libro «De vulgari eloquio» di Dante Alighieri (1868), la Lettera intorno al vocabolario (1868), la Lettera al marchese Alfonso della Valle di Casanova (1871, pubblicata postuma nel 1874); ma la trattazione più organica in materia è costituita dal breve trattato Sentir messa (1835-36, pubblicato postumo nel 1923), accanto al quale si deve ricordare l’altro incompiuto trattato Della lingua italiana, cui lo scrittore lavorò lungamente fra il 1830 e il 1859. Constatata l’inesistenza di una vera lingua italiana, M. riconosceva a tutti i dialetti la dignità di lingue; dovendosi però, per esigenze pratiche, adottare in Italia uno strumento linguistico unitario, proponeva che si scegliesse quello dei dialetti che aveva la maggiore autorità culturale, vale a dire il fiorentino, ma non il fiorentino degli scrittori classici, bensì dell’uso vivo, il solo in grado di rinnovarsi e quindi di soddisfare le esigenze attuali della società italiana. Enorme fu il prestigio delle teorie linguistiche manzoniane: esse infatti divennero egemoni, al punto che nell’insegnamento pubblico dell’Italia postunitaria in fatto di lingua ci si uniformò alla proposta di M. (nel 1862 egli fu nominato presidente della commissione per l’unificazione della lingua).Dopo la pubblicazione del romanzo nel 1827 lo scrittore apparve dapprima assorbito dal lavoro di revisione, poi, maturata la condanna della letteratura d’invenzione, dalla meditazione sui problemi linguistici, storico-politici (La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, 1860-72, pubblicata postuma nel 1889) e filosofico-morali (revisione definitiva delle Osservazioni sulla morale cattolica, 1855, già edite in una prima redazione nel 1819; dialoghi Dell’invenzione, 1850, e Del piacere, 1851, edito postumo nel 1887). Nel 1840 M. si era risposato con Teresa Borri Stampa. Trascorse gli ultimi anni onorato e rispettato come il massimo scrittore italiano vivente; nel 1861 venne nominato senatore a vita. Nell’anniversario della sua morte Giuseppe Verdi compose e diresse la Messa da requiem, dedicata alla sua memoria.Caratteri e fortuna dell’opera manzoniana Considerato il maggiore esponente del romanticismo italiano, M. s’inserisce organicamente in un contesto culturale, quello lombardo, più d’ogni altro sensibile alle sollecitazioni provenienti d’oltralpe, e partecipa attivamente al dibattito allora vivo sulla necessità di reimpostare su nuove basi la letteratura; è quindi tutt’altro che un isolato, sebbene la profondità della sua riflessione e i risultati della sua arte possano farcelo apparire distante dal suo stesso ambiente e a esso superiore. In effetti il suo romanticismo non si avvicina alle poetiche diffuse fuori d’Italia (esasperazione dei sentimenti e delle passioni, titanismo, fascino del mistero ecc.) ma, sulla scia di una tradizione viva in Lombardia fin dal secolo precedente, mira piuttosto al superamento dei vecchi schemi classicisti per realizzare una letteratura moralmente e socialmente impegnata.Una volta bruciata l’esperienza dell’apprendistato poetico, la tendenza dello scrittore a essere presente nella storia del suo tempo, con il desiderio (non sempre realizzato) di farsi portavoce di una comunità di uomini se non proprio di un popolo o di una nazione, si manifesta già negli Inni sacri e nelle odi del 1821. Tale atteggiamento si consolida nelle due tragedie, soprattutto nell’Adelchi, dove la Grazia riscatta il sacrificio degli affetti e degli ideali alla «ragion di stato» e una superiore visione provvidenziale proietta fuori dalla storia le vicende politiche e religiose criticamente ripensate nell’Introduzione e liricamente interpretate nei cori, il «cantuccio» che l’autore si riserva per commentare gli avvenimenti messi in scena: gli episodi della storia nazionale da lui scelti come soggetto assurgono a momenti emblematici di un conflitto, fra umili e potenti, oppressi ed oppressori, che si perpetua nei secoli; e l’appartenere simultaneamente ad ambedue queste categorie è la caratteristica, e il patetismo romantico, di personaggi come Ermengarda e Adelchi.Nei Promessi sposi tutte le istanze precedenti, decantate e rese più organiche dal maturare di un rasserenato equilibrio morale, prendono forma in un vasto disegno narrativo: quella «storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da A.M.», di cui l’autore pretese, non senza un’ironica complicità col lettore, di accreditare il fortunato ritrovamento, come a giustificare lo scarto tra verità storica e invenzione romanzesca. Nel romanzo M. assegna a umili, quali Renzo e Lucia o lo stesso padre Cristoforo, il ruolo di eroi positivi; ma proprio in questa loro condizione egli rintraccia una nobiltà morale che li eleva al di sopra di chi li opprime, di chi detiene il potere con un sopruso sfrontato o mascherato da editti inapplicati (le innumerevoli «grida» contro i bravi) e raggiri interpretativi (il «latinorum» dei giuristi denunciato da Renzo). Potere come sopraffazione, cui tuttavia si oppone il cristianesimo attivo di altri potenti, garante delle speranze degli umili: un Federigo Borromeo e, dopo la conversione, un Innominato. Così, attraverso la trama non certo inconsueta di un divieto matrimoniale, fitta via via di intrighi, colpi di scena, digressioni analitiche e documentarie su eventi capitali (carestia, rivolta, peste), romanzi nel romanzo (quelli di Gertrude, la monaca di Monza, di fra Cristoforo, dell’Innominato), ritratti di personaggi tipici o singolari, divenuti comunque proverbiali (da don Rodrigo al conte zio, da don Abbondio al dottor Azzeccagarbugli e a don Ferrante, da Perpetua a donna Prassede), veniva a scoprire nelle tragiche contraddizioni del Seicento le chiavi di un’interpretazione socio-politica, ma anche etico-religiosa, del presente. Contemporaneamente, scartando le forme lirico-soggettive del romanzo epistolare e di confessione, recuperando le istanze realistiche della narrativa europea, a partire dal Don Chisciotte, alternando infine diversi registri stilistici (comico, satirico e umoristico, tragico, epico ed elegiaco), forniva un modello di romanzo italiano borghese - e, più in generale, di costruzione del racconto - che sarebbe rimasto a lungo operante. Se si aggiunge il prestigio della soluzione linguistica offerta dai Promessi sposi, letti da intere generazioni come esempio del bello scrivere, si comprenderà ancor meglio l’importanza storica di questo romanzo; e in effetti non è arrischiato sostenere che proprio dalle pagine dei Promessi sposi incomincia un nuovo capitolo della prosa letteraria italiana, volta ora a una costruzione antiretorica, conversevole, lontana dai moduli nobili della tradizione classicista e tendente a quelli della lingua parlata.M. fu guardato già da vivo come un monumento della letteratura nazionale, e l’attenzione della critica si è in genere soffermata particolarmente sui Promessi sposi, sul suo capolavoro. Il giudizio sul romanzo, ora di piena adesione ora limitativo, è stato solo in parte condizionato dalla consonanza ideologica dei singoli critici. Il laico F. De Sanctis lo esaltava come frutto di un conquistato equilibrio tra reale e ideale e come primo, originale risultato di una auspicata modernizzazione della letteratura italiana. Sulla distinzione fra poesia e oratoria insistette invece B. Croce, riscontrando nel capolavoro manzoniano piuttosto le tracce di quest’ultima (ma in un secondo tempo sconfessò queste riserve). Gramsci ne condannava l’ideologia «paternalistica»; e ancora non si è esaurito il dibattito tra manzoniani e leopardiani, cioè sul valore culturale, prima che estetico, delle maggiori e divergenti testimonianze letterarie del primo Ottocento. Recentemente si è cercato soprattutto di illustrare i rapporti di M. con la cultura italiana ed europea del suo tempo, e di considerare i modi in cui essi filtrano nella forma letteraria. Ed è a questa che restano sempre affidate la grandezza e l’attualità dello scrittore.