narrazione in prosa (raramente in versi) di un fatto reale o immaginario, di estensione varia, comunque breve rispetto all’epica e al romanzo.Le origini della novella e le teorie narratologiche Sul problema delle sue «origini» ha discusso a lungo la critica dell’Ottocento e del primo scorcio del Novecento, d’indirizzo prima romantico e poi positivista, dando luogo a molteplici teorie fra loro contrastanti: la folcloristica e l’antropologica, la mitica, la classicistica e l’orientalista. È prevalsa quest’ultima, che riconosce nell’India il paese originario della n., la quale si sarebbe poi diffusa in Occidente a partire dal sec. XII, in virtù dei frequenti scambi politici, religiosi e commerciali dell’Europa medievale con l’Oriente. Soprattutto per merito dei tedeschi Th. Benfey e R. Koehler, la scuola orientalista è stata la più attiva e feconda nella raccolta e nella sistemazione di fonti assai eterogenee; ma, proprio sulla base dello sterminato materiale narrativo raccolto, la critica recente è giunta alla conclusione che è impossibile rintracciare un’origine unica della n., poiché essa è presente, con evidenti differenziazioni, nelle culture più lontane e diverse. A cominciare dai formalisti russi (V.J. Propp, V.B. Šklovskij ecc.) l’indagine si è pertanto spostata sulle strutture costanti entro le quali i contenuti del racconto «primitivo» si organizzano proponendosi come modello condizionante per i successivi apporti e sviluppi: per esempio Šklovskij analizza i tópoi dell’«errore» e della sostituzione di persona, distingue la n. che svolge una metafora, o un calembour o un’espressione popolare, dal racconto «incorniciante» (presente nelle raccolte orientali prima che in Boccaccio), il procedimento «a gradini» (accumulo di invenzioni che allontana all’infinito lo scioglimento dell’intreccio) da quello «ad anello» (la linea della narrazione, dopo un lungo giro di peripezie, si richiude sulla soluzione dell’equivoco iniziale) ecc.Questo tipo di analisi è stato portato all’estremo dai semiologi francesi (R. Barthes, A.-J. Greimas, C. Bremond), che rifiutano decisamente il «divenire» delle forme narrative, sostenendo l’esistenza di una «Ur-forma», ossia di una forma originaria e profonda rispetto alla quale le variazioni storiche non sarebbero che adombramenti o complicazioni effimere, da spiegare soltanto in un secondo tempo, giacché quello che conta è arrivare alla logica interna, alla «grammatica» di un racconto primordiale che si colloca fuori della storia. Una posizione più moderata, a metà tra sincronia e diacronia, occupa la scuola statunitense (R. Scholes, R. Kellog), che punta sulla natura instabile del narrare, ma anche sul ritorno abbastanza regolare e ciclico di alcuni schemi: donde l’ipotesi che dalle ceneri del racconto psicologico-realistico possa rinascere una narrativa di pura azione e di puro intreccio, dopo la disintegrazione del «personaggio» operata da scrittori quali Joyce, Proust, Pirandello. Altro punto fermo ribadito dai teorici americani è la derivazione del racconto da un genere vasto e onnicomprensivo come l’epos, i cui elementi costitutivi (il nucleo empirico-descrittivo e il nucleo fantastico-didattico) si sarebbero scissi ab antiquo, dando origine ai due grandi filoni della novellistica: da un lato la tradizione realistica e mimetica (da Boccaccio a Maupassant), dall’altro la tradizione «favolosa» e avventurosa (dai «conti» medievali ai moderni «gialli» d’azione), con intrecci e scambi tra i due campi che richiedono ancora una volta analisi e spiegazioni di tipo sia strutturale sia storico-sociologico. Per questa via il formalismo equilibrato di Scholes e Kellog (come già quello inquieto di Šklovskij) sembra saldarsi all’eredità positivistica, in particolare alle concezioni di H. Taine e di F. Brunetière (i generi letterari come entità «biologiche» che crescono e si trasformano), ma ovviamente smussandone i dogmatismi e facendo ampio ricorso agli strumenti dell’attuale scienza della critica: con una speciale attenzione al «laboratorio» suggestivo di N. Frye, che nell’Anatomia della critica (1957) ha disegnato un sistema globale per lo studio di ogni forma letteraria, e quindi anche della novella.Esempi di novellistica presso i greci e i romani La letteratura classica greca e latina offre semplici spunti o esempi sporadici di novellistica in senso proprio. Varie fonti attestano l’esistenza, in Grecia e a Roma, di narratori pubblici simili a quelli che ancora s’incontrano in Sicilia o in Arabia: Aristofane (Pluto, 177) ricorda un tal Filepsio che raccontava n. a pagamento; Senofonte (Simposio, 11-16) parla di certi inventori di facezie, detti ghelotopoiói, che al tempo di Demostene (orazione XIV, 614) si riunivano nell’Eracleion dei Diomei. Svetonio (Octavianus, 78) ricorda che l’imperatore Augusto, per combattere l’insonnia, faceva chiamare lectores aut fabulatores.Queste notizie disparate si riferiscono alla tradizione orale; nella letteratura scritta l’elemento novellistico fa la sua prima comparsa come piacevole digressione in opere storiografiche: in questo senso vanno letti, nelle Storie di Erodoto, il racconto dell’anello di Policrate (III, 40-43) e la favola egiziana del tesoro di Rampsinito (II, 121). È vero peraltro che già nel sec. V a.C. si erano diffusi in Grecia i «racconti sibaritici», una serie di motti di spirito, burle, canzonature che avevano per protagonisti e vittime gli effeminati abitanti di Sibari. Molto più recente è invece la n. erotico-avventurosa, il cui atto di nascita, in Occidente, si fa coincidere con le perdute favole milesie (sec. II a.C.). Spunti novellistici, di varia natura e ispirazione (comica, tragica, licenziosa), si trovano poi disseminati nell’epistolografia della seconda sofistica (Eschine, Aristeneto) e in taluni romanzi latini dell’età argentea, come il Satyricon di Petronio (sec. I d.C.) e l’Asino d’oro di Apuleio (sec. II d.C.), dove è evidente la ripresa di elementi milesii. Nell’insieme, si può affermare che nel mondo greco-latino la n. stenta ad assumere i caratteri di un genere letterario indipendente.La novellistica medievale Ciò avviene nel medioevo con la diffusione delle raccolte orientali, attraverso gli arabi di Spagna. Esse hanno un’incidenza profonda ma non esclusiva sugli sviluppi della novellistica: poco o nulla ne risentono i fabliaux fioriti in Francia tra la fine del sec. XII e l’inizio del XIV, primo esempio di n. in versi a carattere satirico e popolaresco, i cui precedenti vanno cercati nel patrimonio aneddotico della tradizione goliardica e giullaresca; e soltanto qualche traccia se ne ravvisa nei lai di Maria di Francia (seconda metà del sec. XII), che per i suoi racconti fiabeschi e sentimentali, anch’essi in versi, preferisce attingere dalla Bibbia e dall’agiografia, dalla storia antica e dai poemi cavallereschi. Fabliaux e lai si pongono all’origine dei due principali indirizzi della novellistica occidentale, quello mimetico-realistico (con spiccata inclinazione alla beffa e al motto arguto) e quello a sfondo storico o fantastico-avventuroso (che però, scavalcando i lai, si congiunge strettamente al romanzo cortese): al primo appartengono sia i favolelli italiani del Duecento (per esempio, i Dodici conti morali di anonimo senese) sia i componimenti farseschi (Schwänke, prima metà del sec. XIII) dell’austriaco Stricker; al secondo, numerose traduzioni e parafrasi di leggende dell’India (Libro dei sette savi) e narrazioni varie che tendono a mitizzare personaggi del mondo pagano e cristiano attribuendo loro virtù e imprese straordinarie (Conti di antichi cavalieri di anonimo aretino del sec. XIII).Ma il processo di eroizzazione «esemplare» chiama in causa un’altra componente della narrativa delle origini: l’exemplum morale e devozionale in latino (? esempio), un raccontino sintetico, conforme alla locutio brevis delle artes dictandi, che mistici e predicatori introducono nelle loro opere per avvalorarne gli argomenti. Nella Disciplina clericalis di Pietro Alfonsi o di Alfonso (un ebreo spagnolo convertitosi nel 1106) gli exempla, per lo più ricavati da fonti orientali, figurano come un nudo repertorio tematico a uso dei chierici; ma già nei Sermones vulgares di Jacques de Vitry (m. 1240) essi si svincolano dal codice degli astratti emblemi per calarsi nella viva esperienza politica e religiosa della società contemporanea. Si giunge così alle soglie di una sintesi narrativa nuova, dove il momento gnomico si associa indifferentemente a contenuti eroico-leggendari e realistico-satirici: le storielle «esemplari», acquisita una più complessa articolazione strutturale, escono a poco a poco dai trattati e dalle prediche e si aggregano in raccolte autonome. Opere come l’anonimo Novellino (1281-1300) o come il Libro degli esempi del conte Lucanor e di Patronio (1335) di don Juan Manuel segnano su questa via due tappe importanti; sarà poi il Decameron (1349-53) di Boccaccio a suggellare la conclusione di una ricerca iniziata assai di lontano.Dietro Boccaccio si muovono il fabliau e l’exemplum, la tradizione cortese e la favola orientale, la burla goliardica e lo scherno giullaresco; persino la celebre «cornice», il filo conduttore che lega fra loro i racconti, ha precedenti esempi nel Libro dei sette savi e altrove. Eppure nel suo capolavoro tutto si assesta e risplende di luce nuova, perché soltanto qui la n. diventa finalmente organismo compiuto e autosufficiente, specchio della civiltà comunale e mercantile che sigla col segno della «naturalità» e della «verosimiglianza» anche le più inquietanti fughe della fantasia e della passione. Con Boccaccio ha inizio la grande narrativa realistica e borghese, di cui la n. sarà per alcuni secoli l’espressione più diffusa ed emblematica. Se si esclude il Canzoniere petrarchesco, nessun libro ha avuto tanto peso nella cultura europea quanto il Decameron. Alcuni negano la sua diretta influenza sull’altro capolavoro della novellistica medievale, I racconti di Canterbury (1387-1400) di G. Chaucer, grandioso affresco della società inglese del Trecento; par certo tuttavia che almeno l’architettura esterna di quest’opera (l’idea di far raccontare le novelle durante un pellegrinaggio) sia stata mutuata da uno dei primi imitatori di Boccaccio, il lucchese G. Sercambi, autore di Novelle composte tra il 1370 e il 1390. Sercambi e ser Giovanni Fiorentino (Il Pecorone, 1378) furono scrittori di non eccelse qualità, che però ebbero il merito di ordinare e diffondere un ricco materiale di intrecci e burle, su cui lavorerà la fantasia di grandi scrittori europei: basti pensare che la n. della «libbra di carne» di ser Giovanni passerà nel Mercante di Venezia di Shakespeare. Senza dubbio più artista è il loro contemporaneo F. Sacchetti, che nel Trecentonovelle (1385-92) riesce a disegnare un quadro vivace della civiltà comunale al tramonto attingendo soprattutto dalla cronaca cittadina: la sua stessa rinuncia alla novella-cornice è un sintomo di dispersione e frantumazione narrativa che ben riflette la crisi del ceto borghese, nel momento in cui Firenze va trasformandosi in signoria e la cultura appare divisa tra eredità medievale e rinnovamento umanistico.Dal Quattrocento al Settecento Gli scrittori del Quattrocento, rifacendosi ai modelli classici, sembrano prediligere le facezie in latino (P. Bracciolini, il Panormita ecc.) e in volgare (L. Carbone, Poliziano, A. da Cornazzano), un genere dotto che trova anche una versione popolaresca nei Motti e facezie del Piovano Arlotto (1478 e 1485-89) e nelle Buffonerie del Gonnella (fine del sec. XV). Ma la n. vera e propria continua il suo corso su vari piani di elaborazione artistica: al bisogno di nobilitarla mediante innesti classicistici rispondono la Historia de duobus amantibus (1444) di E.S. Piccolomini e la novella di Seleuco, in volgare latineggiante, di L. Bruni; mentre un più istintivo gusto del «raccontare» si riscontra nelle Novelle senesi (1424 ca) di G. Sermini e nelle Porretane (1482) del bolognese G.S. degli Arienti, queste ultime già legate ai «trattenimenti» aristocratici di una corte (quella estense). Almeno due casi potranno poi essere indicati come timidi tentativi di superare l’imitazione di Boccaccio: la Novella del Grasso legnaiuolo (la redazione più ampia, attribuita ad A. Manetti, è posteriore al 1450), che rovescia lo schema della beffa in un episodio inquietante di «sdoppiamento» della personalità; e il Novellino (postumo, 1476) di Masuccio Salernitano, che non soltanto abbandona l’espediente della cornice (su questa via insisterà M. Bandello) ma, avvalendosi di un linguaggio colorito di dialettalismi, arriva a effetti d’inusitata esuberanza tanto negli argomenti licenziosi e ridanciani quanto nelle scene macabre e violente.La schiera dei novellieri s’infittisce nel Cinquecento: in questo secolo di sempre più rigide codificazioni dei generi letterari, la n. (genere borghese per eccellenza, sfuggente alle regole dell’aristotelismo) diventa una sorta di rifugio, un campo di più libere sperimentazioni. Il Decameron, assurto per opera di P. Bembo a modello linguistico supremo della prosa volgare, continua a condizionare la maggior parte delle raccolte; ma, all’interno del boccaccismo, s’incontra una serie di arricchimenti, trasgressioni, innovazioni. Fra gli stessi toscani l’imitazione è tutt’altro che pedissequa: A.F. Grazzini detto il Lasca in alcune delle sue Cene (1540 ca) spinge la beffa tradizionale al limite dell’assurdo e della tragedia; A. Firenzuola nella Prima veste dei discorsi degli animali (1540 ca) combina originalmente la struttura della n. con la favola zoomorfa del Pañcatantra indiano; P. Fortini mette nelle sue Novelle de’ novizi (1555-61) una foga sensuale più vicina all’Aretino che a Boccaccio.Con queste opere si resta tuttavia nell’ambito della n. «comunale» o «cittadina», vincolata per sua natura ai tempi e allo stile del Decameron, mentre è nella n. «cortigiana» dei settentrionali che si manifesta una più decisa volontà di autonomia, sul piano linguistico (irruzione di forme dialettali venete e lombarde) e strutturale (ricerca di fatti «straordinari» ricavati dalla storia anziché dalla cronaca). Massimo esponente di questo gruppo è M. Bandello (Novelle, 1554), inventore di «racconti lunghi», patetici e avventurosi, in una prosa volutamente antiletteraria e persino trasandata; ma non andranno dimenticati L. Da Porto (l’autore della storia di Giulietta e Romeo, pubblicata postuma nel 1531), G.F. Straparola (che nelle Piacevoli notti, 1550-53, introduce l’elemento fiabesco e le parlate bergamasca e padovana), S. Erizzo, G. Parabosco, C. Malespini e quel G.B. Giraldi Cinzio che negli Ecatommiti (1565) riflette il moralismo cupo (ma anche il gusto per i fatti truci) dell’età della controriforma.La n. italiana, nella sua duplice versione arguta e romanzesca, s’impone per lungo tratto all’ammirazione degli stranieri. In Francia l’influsso del Decameron corre dalle anonime Cento novelle nuove (1464-67) all’Eptamerone (1558) di Margherita di Navarra, raggiungendo infine le Novelle in versi tratte dal Boccaccio e dall’Ariosto (1664) di J. de La Fontaine. In Inghilterra, dopo il capolavoro di Chaucer, è soprattutto in Shakespeare, e nel teatro elisabettiano in genere, che si trovano ampiamente utilizzate le storie di Boccaccio, Bandello, Giraldi Cinzio ecc.; mentre più radicati nella tradizione londinese appaiono i racconti della Difesa dei truffatori (1592) di R. Greene. Analogamente in Germania, dove pure la prima traduzione del Decameron risale al 1472, le innumerevoli raccolte di Schwänke, fiorite nei secc. XV e XVI, sviluppano il filone autoctono della burla alla Till Eulenspiegel. Più complessa è l’evoluzione della novellistica spagnola, che dall’incontro con i modelli italiani giunge alla creazione di un nuovo racconto romanzesco, fitto di agnizioni, colpi di scena, suggestioni onirico-filosofiche, come pure di crudezze realistiche e plebee. Capolavoro di questa narrativa sono le Novelle esemplari (1613) di M. de Cervantes Saavedra, cui seguono, in forme via via più affini al romanzo picaresco, le raccolte di S. Barbadillo, A. de Castillo Solórzano, Juan de Prina. La n. spagnolesca penetra anche nella letteratura italiana del Seicento (G.F. Loredan, G. Brusoni, M. Bisaccioni), mentre in Francia, nello stesso periodo, Marie-Madeleine de La Fayette promuove il racconto psicologico-sentimentale, con La principessa di Montpensier (1662) e La contessa di Tenda (postuma, 1720). Comunque, espressione tipica dell’età barocca è il romanzo, non la n., che rifiorisce semmai in dialetto col grande repertorio favolistico del napoletano G.B. Basile, Lo cunto de li cunti (postumo, 1634-36). Non mostra maggiore interesse per questo genere il Settecento, anche se è nel secolo dei lumi che Voltaire inventa la n. filosofica e i libertini italiani (G.B. Casti, L. Batacchi ecc.) tentano la n. erotico-galante in versi: più autentica forza narrativa, nel solco del moralismo pietistico, mostrano le Fiabe e racconti (1746 e 1748) del tedesco Ch.F. Gellert.L’Ottocento e il Novecento La rinascita della n. inizia nel secolo seguente, nel più vasto quadro della prosa romantica e sull’onda dell’immensa fortuna del romanzo, con la cui storia, da questo momento, la n. si confonde. Definitivamente liquidato il patrimonio boccaccesco e rinascimentale, il racconto dell’Ottocento trae ispirazione dalle nuove poetiche d’oltralpe o, addirittura, d’oltreoceano: i tedeschi L. Tieck e E.T.A. Hoffmann creano il racconto fantastico, l’inglese Ch. Dickens quello romantico-sociale, il francese P. Merimée quello storico-esotico, gli americani E.A. Poe e N. Hawthorne quello allucinante; e intanto si apre la splendida stagione del realismo russo, con le opere somme di A.S. Puškin, N.V. Gogol’, I.S. Turgenev. Ben povera cosa sono al confronto le n. sentimentali in versi dei vari T. Grossi, B. Sestini, L. Carrer o i «novellieri campagnoli» di I. Nievo, C. Percoto, L. Codemo, nati sulla scia della narrativa rusticale di George Sand: soltanto i racconti degli scapigliati lombardi e piemontesi (C. Boito, I.U. Tarchetti, C. Dossi, G. Faldella) sembrano scossi, almeno a tratti, dai traumi profondi dell’Europa romantica. Ma sarà soprattutto l’influenza del naturalismo a dare nuovo respiro alla novellistica italiana: Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) di G. Verga sono contemporanee alle prime raccolte di Maupassant, La Maison Tellier (1881) e Mademoiselle Fifi (1882). Come i naturalisti francesi, i veristi o «regionalisti» italiani (da Verga a L. Capuana, da Matilde Serao a F. De Roberto e a Grazia Deledda) intendono la n. come tranche de vie, spaccato di vita sociale fermentante di denunce, ovvero impassibile rappresentazione di ambienti e costumi. Moduli analoghi si diffondono ovunque: ne sono lontani, invece, in Inghilterra, R. Stevenson e J. Conrad, che riflettono in narrazioni avventurose la passione esotizzante dell’età vittoriana.Ma, già alla fine del secolo, il genere viene piegato a esprimere sensazioni sottili e sfuggenti: i Racconti variopinti (1886) di A. Cechov, quasi privi d’intreccio e di azione, riescono a cogliere le minime incrinature dell’anima e hanno per protagonisti uomini frustrati, vittime di equivoci, illusi. Più tardi la n. («racconto» è il termine più in uso) sarà prediletta da scrittori di diversa formazione, divenendo di volta in volta ricerca psicologica o metaforica (Joyce, Kafka, Pirandello, Svevo), rappresentazione sospesa tra mito e realtà (Faulkner, Hemingway), avventura linguistica e surreale (M. Bontempelli, C.E. Gadda, T. Landolfi), documento e trasfigurazione di realtà umana e sociale (C. Pavese, B. Fenoglio, A. Moravia). Nel tempo, come si è detto, gli elementi differenzianti del genere rispetto alle contemporanee esperienze nel campo del romanzo breve e della prosa diaristica o autobiografica sono andate attenuandosi. Solo in una prospettiva storica, rintracciando gli ascendenti certi e i riferimenti probabili delle singole opere, è possibile stabilire delle distinzioni. In ogni caso, mentre la nozione di romanzo è riconducibile a coordinate culturali abbastanza precise, la definizione di racconto o novella resta piuttosto vaga, così come impalpabile si conferma l’arte del racconto, fatta tutta di misura, leggerezza e assoluta obbedienza ai tempi narrativi. La vitalità del genere è comunque testimoniata da alcuni grandi autori - da J. Borges a I. Singer ai minimalisti statunitensi (? minimalismo) - che hanno scelto il racconto come forma espressiva privilegiata.In Italia si è assistito negli anni Ottanta-Novanta a un rilancio del racconto, in precedenza considerato genere di scarso seguito tra il pubblico. A ciò hanno contribuito sia nuove riviste letterarie («Linea d’ombra», «Panta») sia la pubblicazione di antologie volte a far conoscere giovani scrittori - da quelle curate da P.V. Tondelli (Giovani Blues, 1986; Belli e perversi, 1988) a Gioventù cannibale (1996, a cura di D. Brolli) - o a documentare tendenze della narrativa contemporanea (per es. la scrittura femminile). Il racconto si conferma inoltre un genere congeniale alla satira e all’umorismo come dimostrano, tra gli altri, autori come S. Benni (Il bar sotto il mare, 1987) e G. Gnocchi (Una lieve imprecisione, 1991).La novella nelle letterature orientali Per quanto concerne la n. orientale, va fatta una distinzione fra letterature orientali classiche e letterature moderne, influenzate dall’Europa. Nel primo caso la definizione di «n.» è alquanto vaga, potendo includere sia brevi romanzi del tipo delle Avventure di Sinuhe (Egitto antico, sec. XIX ca a.C.) sia novellette moralistiche come l’Hitopadesa sanscrita (dopo il sec. X d.C.). Come per altri aspetti, letterari e non, l’oriente può distinguersi, anche in questo caso, in almeno quattro grandi cicli culturali: Vicino Oriente antico, India, Cina, Islam, escludendo le letterature orali dei popoli cosiddetti «primitivi» (Asia di sud-est, Siberia orientale ecc.).Nel primo ciclo culturale, particolare importanza va data all’Egitto antico (una «n. poliziesca» antico-egiziana riecheggia anche nella storia di Rampsinito in Erodoto). Oltre alle già menzionate Avventure di Sinuhe, sono da ricordare il Racconto del naufrago del papiro di Leningrado (Medio Regno), le storie magiche del papiro Westcar (Medio Regno), il Racconto dei due fratelli (Nuovo Regno) ecc., che mostrano spesso una mirabile combinazione di spunti realistici e di fantasia. Meno definibili come «n.» sono le epopee narrative assiro-babilonesi (Enuma Elish, Gilgamesh ecc.), né troppo abbondanti sembrano gli elementi novellistici nella letteratura biblica.Diffusissimo in tutte le letterature del Vicino Oriente fu il racconto di Ahiqar, a sfondo babilonese, che risale almeno al sec. VI a.C. La forma autobiografica di questo racconto (come anche di quello egiziano di Sinuhe e altri) sembra debba farsi risalire a una imitazione degli annali reali; è anche caratteristica la struttura dell’opera, nella quale la parte narrativa serve da quadro per una serie di sentenze e di apologhi sapienziali che sono considerati il nucleo essenziale del componimento. Sia tale struttura sia elementi del contesto stesso hanno posto il problema di un possibile contatto fra questo genere di narrazioni e la narrativa indiana, che ne offre numerosi esempi.Il mondo indiano è appunto quello in cui la produzione novellistica appare più ricca di forme e più strettamente connessa a concezioni filosofico-religiose. Infatti, in un tipo almeno di n. indiane (che trovarono poi ampia diffusione anche nel sud-est asiatico) si nota una ricorrente struttura o trama generica: iniziale stato perfetto; produzione di una incrinatura o disgrazia; complesse (ma abbastanza stereotipate) avventure di alcuni elementi del mondo «perfetto» nel mondo inferiore; riunione finale dei protagonisti nel mondo iniziale. A tale schema non pare estranea l’idea tipicamente indiana di una divinità che scende a incarnarsi dal mondo superiore sulla terra per compiervi una determinata missione. Questa struttura sembra abbia influenzato molte fiabe classiche di varie letterature (si vedano le classiche opere di Propp, che tuttavia interpreta le origini di questa struttura alquanto diversamente). Ma non è questo l’unico tipo di n. indiana.Fra le raccolte che più influirono sulla letteratura universale (non è esagerato dire che, specialmente se si accetta una origine indiana anche per il racconto di Ahiqar, buona parte della novellistica mondiale è, in ultima analisi, di origine indiana), le più importanti sono: 1) il ciclo del Pañcatantra (ossia I Cinque Libri, secc. II-VI d.C.), che attraverso rifacimenti pahlavici (iranici medievali) passò in lingua araba e di qui in tutto il mondo occidentale. Si tratta di brevi storie sapienzali che hanno per protagonisti animali. Dai nomi variamente corrotti dei protagonisti (due fratelli lupi o sciacalli) della prima novella il ciclo è più noto fuori dell’India come Romanzo di Kalila e Dimna. Una sua variante è l’Hitopadesa (Savio ammaestramento) già citata. 2) Il Libro di Sindbad (da non confondere con la novella di Sindbad, il marinaio delle Mille e una notte), che passò anch’esso in occidente per tramiti simili ai precedenti (sanscrito-pahlavico-arabo). Fu noto poi anche col nome di Libro dei quaranta (o dieci, o sette) visir o Libro de los engaños: è una n.-cornice che ne racchiude altre sulla furberia e malvagità delle donne. 3) I Jataka e altre fonti buddhiste (Lalitavistara, Buddhacarita ecc.), che diedero origine all’insieme di racconti poi noto nell’Islam e in Occidente come Romanzo di Barlaam e Iosafat. 4) Un’altra raccolta di n. fantastiche indiane, anch’essa a cornice e di epoca incerta, è il Vetalapañcavimsatika (ossia Le venticinque storie del vampiro), narrate da uno spirito entrato in un cadavere allo spaventato personaggio che lo trasporta sulle spalle. Meno diffuso in Europa, è noto anche in altre letterature asiatiche fuori dell’India.Motivi indiani, oltre a elementi iranici, uniti a spunti arabi più realistici (di ambiente iracheno ed egiziano) contribuirono a formare il grande oceano della raccolta, in lingua araba, delle Mille e una notte, che esercitò un immenso influsso in Asia e soprattutto in Europa, in specie dopo le fortunate traduzioni del sec. XVIII. Più tipicamente arabi, o meglio mediterranei (arabo-turco-persiani), sono gli aneddoti che hanno per protagonista una specie di Bertoldo o di Piovano Arlotto, sciocco e saggio nel contempo, detto in arabo Giu?a o Ge?a (in siciliano Giufa), in turco Nasrettin Hoca, in persiano Mulla Na?roddin. Il personaggio è già menzionato in testi arabi del sec. X e, secondo alcuni, sarebbe storico. Gli aneddoti o novellette riferiti a Giu?a-Na?roddin presero forma di vera e propria collezione già nella Persia del sec. XIII.Il fatto che la n. sia in Oriente tradizionalmente considerata come letteratura minore, non degna spesso della lingua letteraria e scritta (salvo forse che in India), è evidente dal nome che tale genere letterario ha nella letteratura cinese, dove è chiamata hsiao-shuo, «piccolo discorso», cioè discorso secondario, di poca importanza. In Cina la n., i cui primi esempi risalgono al sec. V d.C., ha caratteri notevolmente diversi da quella indiana: vi compaiono spunti realistici e umoristici, mentre i caratteri fantastici, talora magici e miracolistici, le derivarono, un po’ più tardi, soprattutto da influssi indiani, cioè buddhisti, e anche taoisti.Con questi precedenti letterari, il problema della formazione di una n. moderna, nelle giovani letterature asiatiche, è complesso. Si tratta di inserire un realismo vero e proprio (non semplicemente bozzettistico) in un genere che, almeno in India, è nettamente «metafisicizzante» (più forti spunti protorealistici sembrano scorgersi, come si è detto, nelle letterature di ceppo islamico e cinese) e di far accettare la n. come creazione con piena dignità letteraria. Nonostante tali difficoltà, l’influenza europea, molto forte in tutte le nuove letterature asiatiche, sembra esser riuscita a stimolare il genio narrativo degli scrittori moderni e contemporanei, soprattutto arabi, turchi, persiani, hindi, urdu, indonesiani, cinesi, giapponesi, e vietnamiti: in molte di tali letterature il racconto e la n. sono oggi un genere fecondo, con risultati nettamente superiori a quelli offerti dal romanzo e dal dramma.