Indice
Le prime pagine del libro
Oslo, otto anni prima.
Succede tutte le estati. Certi giorni il Paese è lambito da una calura tale da far tremolare l’aria. L’asfalto stilla petrolio, il tram sprigiona vapori corporei, umani e il norvegese, dimenticandosi della latitudine a cui vive, impreca contro il caldo.
Ci pensa l’inverno, a pareggiare i conti.
C’era un tale freddo da far crepitare la pelle della giacca d’ordinanza, quando Fredrik Beier levò il braccio e bussò.
Dietro le finestre della villetta gialla di Galgeberg, lascito dell’epoca in cui la città si chiamava Kristiania e le fogne erano a cielo aperto, ampie tendine ostruivano la vista. Ma il comignolo fumava. Le urla erano cessate mezz’ora prima, secondo i vicini.
Fredrik si guardò alle spalle. Dietro aveva il collega Andreas Figueras. Si sentiva gli occhiali gelidi sul naso, e non appena fece spuntare la lingua all’angolo della bocca le perle ghiacciate che aveva tra i baffi si sciolsero. La villetta era gestita dal distaccamento locale dell’Ufficio per la tutela familiare, e vi abitava una donna russa insieme al figlio. Erano scappati dal padre del bambino, un farmacista che si chiamava Peder Rasmussen. Un nome troppo comune per restare impresso.
Il trottolino che venne ad aprire non dimostrava piú di sei anni, ma Fredrik sapeva che ne aveva otto. Alzando lo sguardo dal bimbo per scrutare il corridoio buio, venne investito da un vapore caldo.
Andreas doveva aver intravisto la figura sulla porta bassa della cameretta, e anche la rivoltella che l’uomo impugnava, e capito che le chiazze scure sulla camicia erano di sangue. E che il vapore proveniva dal bagno, dove c’era una doccia aperta. Ma Fredrik non vedeva nulla. Gli si erano appannati gli occhiali e, quando fece per toglierseli, una mano forte l’afferrò per il bavero e lo strattonò nell’ingresso. La mano di Andreas, che brancolava dietro di lui, sparí, e un colpo alla fronte, dato con l’impugnatura della pistola, lo fece cadere in ginocchio.
Fredrik sentí una porta sbattere, un piagnucolio, i respiri atterriti di un bambino, poi le pareti si chiusero su di lui.
Umidità. Una pellicola appiccicosa che dal capo gli scendeva giú per la gola, dove la camicia dell’uniforme tirava, e lungo la schiena. Piedi zuppi negli stivali invernali. Con un lieve singulto cercò di fare un respiro profondo; ottenne soltanto di risucchiare in bocca una sostanza scura, la tela del sacco che gli era stato infilato in testa, e di provare un senso di claustrofobia. Tentò di scalciare, ma i piedi erano legati insieme, e anche le mani, serrate da un nastro adesivo dietro la schiena. Le fibre rigide della moquette gli pungevano le dita. Si tese, si torse, inarcò la schiena e per poco non svenne. Poi riuscí a dominarsi, a vedere al di là dei lampi rossissimi che s’inseguivano davanti ai suoi occhi, a contare, contare lentamente, trattenere il fiato, respirare, trattenerlo di nuovo e respirare ancora. Attendere.
Il calcio della pistola doveva averlo colpito all’attaccatura dei capelli: le fitte s’irradiavano da lí. Ora che si era calmato sentiva un dolore piú intenso, ma poi la morsa intorno al cranio cedette un poco. I polmoni si riempirono. Non aveva controllo sul respiro, né sul corpo, né sulla mente. Il cuore rallentò.