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L'opera di De Roberto sembra essere stata relegata in un angolino, complice il giudizio negativo di Benedetto Croce, il giudice supremo degli affari della letteratura italiana, eppure non ha assolutamente nulla da invidiare ai più titolati scrittori siciliani come Verga o Pirandello, come ebbe poi a sottolineare un altro conterraneo dello scrittore, Leonardo Sciascia, che si spinse oltre e sostenne che dopo i Promessi Sposi di Manzoni nell'empireo dei romanzi italiani I Viceré meritasse un posto di prim'ordine e maggiore considerazione. Non posso fare a meno di accordarmi al parere di Sciascia, il solo aver pensato un romanzo di tale portata è ammirevole ma essere riusciti a portarlo su carta ha dello straordinario, la prosa fluida, in cui è da apprezzare la capacità di De Roberto di costruire grandi architetture sintattiche che però hanno la capacità di librarsi leggere e avviluppare il lettore e immergerlo nella storia. Non una parola di più né una di meno di quelle necessarie, fiorita di alcuni "sicilianismi" che da siciliana e apprendista linguista non ho potuto far altro che notare e gustare. Le vicende della famiglia Uzeda, dei suoi fasti e della sua grettezza, non sono altro che il racconto di un’Italia che non sembra essere poi così lontana da quella attuale: le sue corse folli e cieche verso il progresso e il cambiamento che sembrano costantemente lasciare indietro chi dovrebbe esserne il fautore e allo stesso tempo colui che dovrebbe godere delle “novarum rerum” che questo cambiamento dovrebbe portare con sé. Eppure come nota lo stesso Consalvo Uzeda, il personaggio più disincantato e per questo onesto fino alla disonestà e alla brutalità, ai Borboni possono essere succeduti i Savoia, all’ancien régime una monarchia costituzionale, ma le cose cambiano per non cambiare e coloro che erano al potere e godevano dei privilegi saranno sempre quelli al comando. Possono cambiare i nomi che si danno alle cose ma non coloro che ne muovono i fili. Una filosofia “gattopardiana”, quel cambiare tutto per non cambiare niente ormai passato alla storia e dovrebbe far riflettere come un’uguale filosofia si ritrovi in due romanzi di due scrittori siciliani, come se la Sicilia avesse potuto funzionare da cartina tornasole per la neonata nazione (ma forse anche per quella di 150 anni dopo) ma si è preferito ignorare, per nascondere le storture sotto un ricco tappeto, un po’ come si fa con la polvere quando si vuole far trovare agli ospiti (ospiti sabaudi in questo caso) tutto in perfetto ordine, però la polvere lì rimane e lì continua ad accumularsi… I Viceré non è certo romanzo in cui spicchino figure in cui riconoscersi o a cui voler rassomigliare, tutto il contrario, non c’è nessuno che meriti di essere salvato e chi lo meriterebbe è il primo ad essere brutalmente schiacciato dall'accalcarsi sgomitante di chi pensa solo “alla roba”, ad una discendenza dal sangue marcio da continuare a portare avanti, a vecchi privilegi da difendere anche a discapito di ogni affetto e legame di sangue. Dalla vecchia principessa Teresa all’ultimo virgulto dei principi di Francalanza assistiamo ad una girandola di personaggi che begano e lottano per ottenere quello che vogliono, a qualunque costo, per poi, una volta ottenutolo, gettarlo via e continuare la lotta per riportare le cose allo stato precedente. I personaggi sono molti, ma alcuni vengono seguiti marginalmente e la lente di De Roberto si concentra, per blocchi, su delle figure tipo: il viziato Conte Raimondo, l’odiato e superstizioso Principe Giacomo, il furioso ma simpaticissimo, in una famiglia dove di simpatico non c’è praticamente nessuno, Don Blasco, la “Santa” Principessina Teresa costretta a dividersi tra l’obbedienza ad ogni costo insegnatele sin da bambina e la voglia di essere artefice del proprio destino, e infine e soprattutto Consalvo Uzeda, il più spietato di tutti, un diavolo a cui è impossibile affezionarsi ma anche l’unico capace di comprendere che se i tempi cambiano, anche se solo apparentemente, l’unica cosa possibile da fare è cambiare con loro senza star troppo a sottilizzare sulla morale e l’etica ma gettandosi a capofitto per costruirsi la maschera più adeguata per continuare ad andare avanti, certi che il sangue e il privilegio costituiscano sempre una via preferenziale e sicura per raggiungere il successo. A fargli da contrappunto la figura malinconica e romantica del cugino Giovannino che come Consalvo non si adatta al modo di vivere e pensare della propria famiglia ma, a differenza del principino, non riesce a dissimulare il proprio malcontento, complice anche il fatto di essere semplicemente un secondogenito senza alcuna prospettiva, e a cui non resterà che pagare un prezzo altissimo per la propria libertà. Lasciate da parte le follie e le monomanie dei parenti, Consalvo riuscirà ad imporsi e alla vecchia zia filoborbonica consegnerà a voce quello che può essere considerato il manifesto e punto focale di tutto il romanzo: “Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.”
Dopo essere stato stroncato dal giudizio estremamente negativo di Benedetto Croce, "I Vicerè" di De Roberto, dipingono uno straordinario affresco della situazione politico-sociale italiana, antecedente l'Unificazione. È l'affascinante storia di una famiglia, discendente da vicerè spagnoli di antico lignaggio, che, nonostante i numerosi rivolgimenti politici, riesce a mantenere il proprio potere e la propria posizione. Un'opera travolgente e accattivante, che chiunque deve aver letto almeno una volta nella vita.
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